William Santoleri CSArt
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Troncospasmi
Giuseppe Martini

Questi tronchi sono frutto  di un'ammissione: l'ammissione che la pittura può indagare la profondità ma non l'estensione, può permettersi di penetrare nelle pieghe della realtà ma non di abbracciarla in tutta la sua ampiezza, ammesso che sia mai possibile e che la realtà non sia infinita. Ma se è infinita, l'artista può osservarla nel dettaglio o per improvvisa epifania, ma mai completamente. Chiamiamola pure epifania perché sono tronchi che appaiono in un mondo disabitato senza un prima e pare proprio senza nemmeno un dopo, momenti che squarciano una specie di assenza di tempo - a meno di non ipotizzare una nevicata quel fondo bianco da cui spuntano i tronchi del dipinto di copertina di questo mese, ma si tratterebbe allora di una nevicata primordiale, di un fenomeno appena periferico al big bang o inconsutile alle manovre dei primi giorni della Creazione. Resta certo però che sono alberi senza una cima, alberi che sfuggono oltre il supporto e quindi inesplorabili se non per intuizione o per analisi: alcuni luminescenti come fossero gas quasi inerti, altri scabri e grigi come in una tundra, semmai tundra non sia parola troppo ancorata a un mondo dove il tempo si è già organizzato.
Ed è importante che il percorso di analisi e di continuo stupore reiterato per questi ospiti misteriosi e vivi, che parlano fra loro una lingua evidentemente a noi non percepita, sia un percorso che continua con ostinazione nella carriera di William Santoleri, da qualche anno a Parma con studio in Oltretorrente: che la sua ricerca fosse intrisa di una personalità severa, di una singolarità priva di sfinitezze, lo percepirono subito i giurati del Premio Arte di Milano che nel 1996 gli attribuirono, aveva venticinque anni, la Targa d'Argento per la pittura. Da lì, una fitta serie di esposizioni a Parma ma anche in Italia e all'estero, ognuna al pari con i gradini che lentamente Santoleri percorre nell'esplorazione dei tronchi primigenii. C'è forse qualche asprezza di malinconia ovidiana, suo conterraneo, in queste ricerche: fascino per i rudi costumi di una natura priva delle gromme della civiltà, e senso di lontananza da qualcosa di uterino ma anche di misterioso, che attrae e fa paura al contempo.
Tant'è che ci meravigliamo, dopo aver detto che l'uomo è bandito da questa realtà, avvertendo a sorpresa in una tela la presenza di una figura che grida a braccia spalancate all'improvvisa scoperta di una selva di tronchi nudi, che fermi e silenziosi non potrebbero certo minacciarla: non sono foreste che camminano come quelle shakespiriane, sono presenze mute, sono totem misteriosi, ma basta la loro percezione per scatenare un gesto munchiano che non sarà di angoscia ma di lacerazione, di stupefazione. Chi siete, tronchi? Fate gridare di un urlo ancestrale come se prima non ci foste mai stati, come terrore alla vista dell'ignoto. Cosa c'è in questi tronchi di tenacemente umano da scatenare una ribellione come se ci vedessimo allo specchio per la prima volta?
Un senso di estraneità nelle tele di qualche anno fa, in cui appaiono luminescenti di blu e rossi, figli di uno spazio davvero inospite all'uomo; ma non potendo scalarli, con il tempo l'occhio di Santoleri si avvicina e ne percepisce le croste, i segmenti intrecciati e veloci del legno, la corposità golosa dell'alburno, i fitti segnali sfumati di infiniti grigi e marroni e bianchi della superficie sulla quale esiste un vissuto ma ci sfuggirà, ammesso che non sia un vissuto che riguarda noi più che loro: eravamo tronchi e ora ci atterrisce l'idea. La pittura scava nelle profondità ancestrali, e anche qui viene in soccorso il poeta delle Metamorfosi: "denit sdhuc trepidare novo cortice pectus", sente ancora il cuore palpitare sotto la fresca corteccia.

Testo tratto da "Il Caffè del Teatro" n. 109, ottobre 2006, p. 59.

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