Ludmila Kazinkina CSArt
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Wild women
Chiara Serri

«Osso dopo osso, capello dopo capello», nelle opere di Ludmila Kazinkina rivive il mito della donna selvaggia, intesa come forza primigenia, ferina e materna, che vive secondo natura. Non una potenza incontrollata, ma un'energia psichica tenace, che sopravvive nonostante gli stereotipi imposti dalla società contemporanea.

Dopo aver approfondito il tema del rapporto tra mente e corpo, attraverso la riproposizione di una figura con il capo dilatato e gli arti svuotati, specchio di una realtà in cui il lavoro manuale viene sostituito da un flusso ininterrotto di informazioni e di immagini, l'artista russa indaga ora quella parte del femmineo la cui naturalità è stata progressivamente repressa ed "addomesticata".

Come scrive, tuttavia, la psicoanalista americana Clarissa Pinkola Estès (Donne che corrono coi lupi, 1993), «la donna selvaggia ritorna», attraverso storie, sogni notturni ed «eventi a metà compresi e a metà ricordati». Proprio per questo, le donne di Ludmila Kazinkina, che si sono nutrite di libri, film e leggende, dalla strega Baba Yaga al mito del Golem, da Tarkovskij a Bulgakov, non sono più costrette in atmosfere claustrofobiche, ma immerse in una natura selvaggia, dove tutte le cose esistono e consistono.

La tela si arricchisce dunque di nuovi colori - verde, ocra, marrone - e di nuovi spessori, che si affiancano al grigio ottundente, quasi una firma, che ha caratterizzato la precedente produzione. Stratificazioni materiche, graffi ed applicazioni che danno vita a "quadri nel quadro", parentesi informali profondamente legate ad una memoria personale e collettiva.

La figura, descritta attraverso linee fluide ed eleganti, viene posta in relazione ad elementi naturali, attraverso i quali recuperare la donna selvaggia, ovvero il lato più autentico ed istintuale. Un percorso di emancipazione da cliché e convenzioni sociali, che si concretizza in elementi simbolici ricorrenti, come le ali (della figura stessa o dei volatili con i quali instaura un dialogo silenzioso), alla ricerca delle proprie radici e della propria libertà.

Una condizione difficile da raggiungere, che richiede sforzo e tenacia, come dimostra la grande installazione intitolata Oblio (2012): tante figure a matita su carta che muovono ritmicamente le ali, ma senza spostarsi di un centimetro, come farfalle conservate all'interno di teche di cristallo.

Un movimento effimero? Uno sforzo inutile oppure un percorso di crescita e di liberazione dalle proprie ansie e dalle proprie paure? Impossibile dirlo, anche se alcune farfalle agitano le ali più energicamente di altre, producendo un sussurro che sembra rievocare un suono ancestrale, una memoria custodita nella pietra, che ancora oggi si traduce in segni, colori, musica e parole.

Testo scritto in occasione della mostra Wild women, Galleria 8,75 Artecontemporanea, Reggio Emilia, 2012

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